30 settembre 1944

ATTENZIONE: questa lettera non è originale ma è stata scritta sulla base dei documenti e delle testimonianze di Dino.

Magdeburgo, 30 settembre 1944

Con oggi finisce un altro mese e sono ormai quattro anni e mezzo che sono partito soldato. Allora avevo da poco compiuto vent’anni e ora ne ho quasi venticinque.

La mia giovinezza se ne sta andando e non so se e quando tornerò a casa dai miei cari. Anzi non so nemmeno se siano ancora vivi e in salute.

In quest’ultimo mese ci sono stati tre grandi bombardamenti, l’11, il 12 ed il 28, tutti verso mezzogiorno. Il più devastante dei tre è stato l’ultimo, quando 400 aerei americani hanno colpito soprattutto il centro della città. Molte chiese sono state distrutte, compresa la Cattedrale, così come sono stati distrutti il municipio, il teatro centrale e l’ospedale della città vecchia. I morti si contano ogni volta a centinaia. Ormai la popolazione ha capito che i nemici stanno avendo la meglio e la resa è solo questione di tempo. Molti cercano di fuggire dalla città per trovare rifugio nelle campagne, soprattutto donne e vecchi.

Da noi molti prigionieri si sono ammalati di tifo, una malattia portata dai pidocchi che ci infestano i vestiti, per cui siamo stati messi tutti in quarantena per dieci giorni. Come vi avevo già detto l’ultima volta, ammalarsi qui è sempre un grosso rischio. Per questo è piuttosto raro che chi si ammali marchi visita per essere visitato dal medico del campo. E’ infatti opinione comune che marcare visita sia un rischio, un grave rischio: è come fare suonare una sirena d’allarme nei nostri confronti. E’ come dire che si è sulla strada per diventare inabili, improduttivi, anche se solo temporaneamente. Infatti se il medico decreta il ricovero al Lazareth, per noi prigionieri significa entrare nell’anticamera della morte, perché dal Lazareth al campo di sterminio di Buckenwald il passo è breve. Già, perché il campo della Polte ora è un sottocampo di Buckenwald. E’ per questo motivo che quando è capitato a me, mi sono ben guardato dal farmi visitare, anche perché come sapete non siamo tutelati neppure della Croce Rossa: nessuno è mai venuto a vedere come stiamo.

Per farla breve, avevo un braccio tutto gonfio, la mano era blu, avevo il sangue avvelenato perché ci danno da mangiare solo quelle maledette rape. Per non finire nelle docce di Buckenwald, anziché andare in infermeria sono tornato nella mia baracca. Lì c’era un prigioniero che, non so come, teneva nascosto una specie di coltello. Lo ha sterilizzato sulla fiamma e mi ha fatto un taglio: è schizzato fuori più di mezzo litro di pus giallo. E meno male, perché altrimenti sarei finito alle docce. E comunque non era la prima volta né probabilmente l’ultima che mi capita.

Oltre al tifo di cui vi ho parlato, i prigionieri soffrono di molte malattie causate dalla scarsità e dallo schifo del cibo che ci rifilano. Il cibo è sempre il principale argomento di discussione. Dopo 12 ore di duro lavoro un pasto insufficiente e un ambiente sempre opprimente ci rendono ogni giorno più deboli nel fisico e nel morale. Ognuno cerca il modo di trovare qualcosa in più da mangiare. E poi mancano le posate, attrezzi molto ricercati, tanto che alcuni prigionieri ebrei si sono ingegnati a produrli partendo da scarti metallici della fabbrica, per poi scambiarli con un po’ di pane o di margarina, oppure con una fetta di salame o porzioni di cibo della razione quotidiana.

Sul documento di identità rilasciatomi per essere riconosciuto, c’è una svastica che vorrei cancellare ma non posso perché rischierei una punizione. Sopra la svastica c’è la scritta “Schwerarbeit”, lavoro pesante, per indicare la condanna ai lavori forzati. Questa tessera però mi consente di passare da un reparto all’altro del campo, senza pericolo di venire ucciso a fucilate; la porto sempre addosso, appiccicata bene in vista, in modo da essere riconosciuto subito dalle S.S. che mi sorvegliano. Ho anche una tessera annonaria, che mi danno ogni settimana, su cui sono stampati dei numeri e che mi serve per mangiare. Si mangia solo al mattino, “fruh e mittag”, colazione e pranzo insieme. Il pasto consiste sempre in un piatto di rape. La gamella di rape è il solo pasto che ci danno per tutto il giorno. Più un pezzetto di pane alla settimana da dividere in tre.

Lavoro sempre 12 ore al giorno, a turni alternati: una settimana dalle 6 alle 18 e quella successiva dalle 18 alle 6, sollevando casse di 90 kg. Un sabato su due lavoro dalle 18 fino al mezzogiorno della domenica, cioè 18 ore filate. La settimana successiva in compenso stacco alle 18 del venerdì sera e il sabato ci lasciano liberi di uscire dal campo.

La domenica invece, dalle 6 in poi o fino alle 18 a seconda dei turni, è giorno di libertà. Gli ebrei, a cui è vietato uscire dal campo, lavorano invece nelle baracche, anche riparando abiti con gli attrezzi da loro stessi costruiti.

Ieri le donne ebree non si sono viste in fabbrica per tutta la giornata. Gli altri prigionieri sono stati presi dal panico, immaginando chissà quale possibile causa le avesse bloccate. Tutti si chiedevano se fossero state maltrattate, ferite o, peggio, uccise. Tornando alle baracche ci è sembrato tutto in ordine. Solo più tardi abbiamo scoperto la crudele ragione: le guardie e le SS del loro campo le avevano obbligate ad assistere all’impiccagione di una giovane donna ucraina accusata di sabotaggio. Pur essendo un campo di lavori forzati anche qui aleggia costantemente la morte, non è sbagliato considerarlo un luogo in cui i prigionieri vengono sterminati.

Tutti i prigionieri vengono ancora maltrattati brutalmente per cause futili, sovente senza un minimo motivo, fino al punto di perdere i sensi. Le punizioni corporali sono all’ordine del giorno, i cani vengono aizzati contro i prigionieri e alla minima occasione viene minacciata la fucilazione immediata.

Chi è troppo debole per lavorare, a causa del trattamento brutale, del duro lavoro e delle razioni da fame assegnate, viene rispedito al campo di sterminio e viene sostituito da altri più in salute.

Se poi c’è stato un bombardamento allora il giorno dopo vengono dei civili tedeschi che cercano della manodopera gratuita. Allora ci mettono in fila, ci guardano in bocca come se fossimo animali per vedere se abbiamo i denti sani, poi esaminano ogni nostro muscolo. Si vede che hanno bisogno di gente che abbia forza. Ci fanno delle domande in tedesco per vedere se lo capiamo e se rispondiamo. Molti di questi civili sono tremendi, ci trattano come schiavi. Alcuni prigionieri mi hanno raccontato di essere andati a riparare le fogne e dovevano lavorare nei liquami. Anche fra i tedeschi però ci sono brave persone che non c’entrano nulla con i pazzi che li comandano.

A volte, mentre riporto indietro le cassette di munizioni vuote perché le ricarichino, ci trovo dentro una fettina di pane. Da noi viene sovente un civile buono, che mi ha preso in simpatia e la domenica a volte mi porta con lui, dopo i bombardamenti su Magdeburgo, a scavare fra le macerie per estrarre i cadaveri. Quando esco con lui per andare a scavare nelle macerie, mi danno un documento di identità speciale, perché sanno che siamo affamati e cerchiamo fra le macerie qualcosa da mangiare, ma se ci scoprono ci fucilano sul posto.

Una volta questo signore, rischiando lui stesso la fucilazione, mi ha portato a mangiare a casa sua, dove ho conosciuto la moglie. Ci ha fatto da mangiare quel che aveva, povera donna! Mi vogliono bene perché dicono che gli ricordo loro figlio morto in guerra.

Un’altra volta io ed un mio amico, scavando tra le macerie, ci siamo trovati al buio. Ho cominciato a toccare intorno a me per vedere se trovavo qualcosa di mangiabile. Ho trovato dei biscotti e ho incominciato a mangiare… ma non sapevo che anche il mio compagno fosse lì. Quando ho sentito dei rumori mi sono spaventato…pensavo fossero le guardie…era invece il mio amico che mangiava biscotti anche lui, spaventato a sua volta come me. Ci eravamo già visti al muro. Probabilmente sotto le macerie c’era un negozio. Quella volta siamo tornati al campo belli pieni. Come vedete, qualche volta ci è andata anche bene!

Vostro Dino

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