ATTENZIONE: questa lettera non è originale ma è stata scritta sulla base dei documenti e delle testimonianze di Dino.
Germania li, 24 – 12 – 1943
Carissimi,
sono sul rimorchio di un trattore che sta attraversando la notte gelida verso una destinazione sconosciuta anche se immaginabile.
Ma è bene che vi racconti dall’inizio la disavventura che mi è capitata oggi. Proprio alla vigilia del Santo Natale, che una volta era un giorno di festa e oggi è un giorno tristissimo.
Come scrissi l’ultima volta, ho rifiutato più volte di diventare kapò. Quel ruolo mi fa ribrezzo. Meglio morire che infierire sui propri compagni o su altri internati che già così rischiano la vita ogni giorno per la fatica, gli stenti, le malattie e le percosse.
Ebbene, per convincermi ad accettare quell’incarico prima mi avevano offerto di non lavorare, di avere più cibo e qualche sigaretta. Poi mi hanno detto che avrei potuto tenere per me parte del cibo destinato agli altri prigionieri. Ma siccome ho continuato a dire di no, allora sono incominciate le vessazioni da parte del kapò che, come vi avevo già detto, mi ha preso di mira. Ogni volta che mi passava vicino mi insultava dandomi del maiale, del badogliano, del traditore. E ogni volta un calcio, uno sputo, un pugno, un colpo con il calcio del fucile.
Naturalmente non potevo replicare ma solo cercare di fargli capire che i suoi insulti e le sue angherie mi facevano un baffo, anche se le botte facevano male.
Ho resistito, Dio sa quanto ho resistito, ma oggi non ce l’ho più fatta e mi sono ribellato. L’indigenza della prigionia e la violenza gratuita del mio aguzzino mi hanno fatto perdere il controllo. Ed ho reagito.
Proprio in quel momento stavo pensando che domani è Natale e provavo un senso di rabbia mista ad impotenza nel sapere che ero lontano dai miei cari, quando il farabutto mi ha assestato un pugno in faccia, colpendomi in pieno un occhio.
Istintivamente l’ho colpito con la paletta di legno che avevo in mano, con tutta la mia forza, senza pensare alle possibili conseguenze.
Ho avuto solo il tempo di vederlo crollare a terra con il volto insanguinato che avevo già due fucili puntati alle tempie.
In quel preciso istante ho pensato che fosse meglio così, sarei morto senza tante storie e tutto sarebbe finito in un attimo.
E invece, dopo avermi colpito più volte facendomi cadere a terra, mi hanno ordinato di ritornare nella mia baracca.
Dopo qualche ora mi sono venuti a prendere e mi hanno caricato su questo rimorchio. Nel freddo della notte penso che mi giustizieranno e getteranno il mio corpo in una delle tante fosse comuni sparse nei boschi, di cui ho sentito parlare al campo.
Non potrò più rivedere i miei cari, ma forse è meglio così, tanto sarei morto lo stesso di qualche malattia, congelato, per la fame o per la fatica.
Non vedrò l’alba del Natale del 1943. E pensare che poco più di quattro mesi fa mi trovavo a Tripolis con i miei amici…
Dino