La vita di Dino

  • L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA

Il 12 dicembre 1919 a Torino nasce Dino. O meglio, nasce in corso Casale, Borgata Rosa-Sassi (Borgià Reusa e Sass in torinese), Bernardino Vittorio Fulgenzio Ferrero.
Se il cognome è diffusissimo già allora nella città sabauda, i tre nomi non comuni che gli vengono assegnati non lo sono altrettanto, ma tutti e tre hanno un’origine ben definita.
Bernardino era il secondo nome del nonno paterno, che si chiamava appunto Carlo Bernardino Ferrero ed era un personaggio conosciuto nella Torino di fine ottocento in quanto scrittore e giornalista in lingua piemontese, nonché direttore e proprietario per un decennio della rivista satirica ‘L Birichin che non pochi problemi gli procurò con la censura e la giustizia.
 
Fulgenzio era invece il nome del nonno materno, che di cognome faceva Arminio di Monforte, ufficiale dell’esercito sabaudo di nobili origini.

Vittorio invece era la versione maschile del nome della nonna paterna, Vittoria Rocchietti.

Del resto anche i genitori di Dino non scherzavano quanto ad anagrafiche. Il papà si chiamava Luigi Teresio Ausonio, mentre la mamma Edvige Renata.
A parte ciò Dino fu il loro primogenito cui seguirono tre sorelle: Isa nata nel 1921 e morta all’età di due anni, Silvana nata nel 1923 e Wally nata nel 1926.
La famiglia Ferrero dopo la nascita di Dino si trasferì a Sulmona  (AQ), dove disgraziatamente morì Isa, e quindi nel 1923 a Tripoli in Libia, dove nacquero Silvana e Wally.

       
        
       
A Tripoli Luigi lavorò alle dipendenze della ditta dei fratelli Scalera come direttore del locale teatro per oltre dieci anni. Quindi, con l’approssimarsi del secondo conflitto mondiale, rientrarono in Italia e si stabilirono a a Torino in Borgo San Paolo (Borg San Pàol in torinese), più precisamente in via Malta, a pochi passi dallo stadio di corso Marsiglia dove assisteva ai trionfi della Juventus del quinquennio d’oro. Ma dopo pochi anni, a fine 1937, si trasferirono, questa volta definitivamente, ad Alpignano (TO) dove cambiarono casa un paio di volte. Prima vissero in una villa oggi non più esistente, Villa Dotto, che si trovava nell’attuale piazza Caduti. In seguito si stabilirono all’indirizzo a cui Dino inviò tutta la sua corrispondenza di guerra: via Principe Umberto 34 che, nell’ultima lettera inviata dal lager, nell’agosto 1944 sarà già diventata via Guglielmo Marconi 34 come ancora oggi si chiama.

Nel gennaio del 1939, 1 19 anni appena compiuti, Dino viene sottoposto alla visita di leva presso il distretto militare di Torino risultando abile e venendo posto in congedo.Pochi mesi dopo, a maggio, viene assunto con la qualifica di impiegato presso la ditta Gualdoni Luigi con sede a Turbigo (MI), che gestisce una cava a Sant’Ambrogio (TO). Per otto mesi, estate e inverno, ogni mattina Dino inforca la sua bicicletta per recarsi a Sant’Ambrogio.

 

  • LA GUERRA – IL FRONTE FRANCESE

Per Dino la vita da “borghese”, così si diceva in contrapposizione alla vita da militare, finisce i primi di marzo del 1940 quando riceve la cartolina precetto: si deve presentare lunedì 11 marzo al distretto militare di Torino dove verrà sottoposto a visita medica e assegnato ad un reparto. Venerdì 8 marzo 1940 sarà il suo ultimo giorno di lavoro alla cava Gualdoni di Sant’Ambrogio, tre giorni dopo inizierà la sua avventura militare che durerà più di cinque anni. Lui e altri milioni di giovani sottratti alle famiglie e parcheggiati nelle caserme in attesa di una guerra sciagurata ma divenuta inevitabile. Quindi l’11 marzo 1940, tre mesi esatti prima della dichiarazione di guerra, Dino entra al distretto militare di Torino e, a fine giornata, scrive la prima di una lunga serie di lettere alla sua famiglia.
Essendo un giovane sano e robusto viene dichiarato abile e viene arruolato nel corpo degli artiglieri da montagna. Il primo periodo di naia lo trascorre in varie località del Piemonte. Prima di tutto Venaria Reale dove avviene appunto la sua assegnazione all’arma dell’artiglieria da montagna. Quindi Condove, dove segue il  periodo di addestramento che si conclude con il giuramento di fedeltà al Re e alla Patria. Poi, come ci si attendeva da tempo, il 10 giugno 1940 il capo del governo italiano dichiara guerra agli Alleati. Va detto che cinque giorni prima i tedeschi avevano di fatto annientato la resistenza dell’esercito francese e si accingevano ad entrare a Parigi. Temendo che l’Italia potesse restare esclusa dal “tavolo della pace” Mussolini la fece entrare nel conflitto. Ma le forze armate italiane, indebolite dai precedenti impegni in Etiopia e in Spagna, non erano pronte a sostenere un conflitto di tale portata. Mussolini, convinto di un’imminente vittoria tedesca, non ritornò indietro dalla sua decisione e sferrò quella che rimase alla storia come la “pugnalata alle spalle” della Francia.
Dino viene inviato al fronte occidentale, nella zona d’operazioni del Colle del Moncenisio in Val di Susa. In questi mesi di spostamenti Dino passa più volte con il treno per Alpignano, il suo paese. Dal finestrino vedrà passare i suoi luoghi e la sua casa, vedrà persone conosciute, ma senza potersi fermare a salutarle.
L’attacco alla Francia sarà cruento ma breve. La cosiddetta “battaglia delle Alpi Occidentali” vede l’esercito italiano andare all’offensiva e quello francese resistere efficacemente. Tuttavia la disfatta di fronte all’avanzata dell’esercito tedesco induce i francesi a chiedere l’armistizio. Il Reich impone alla Francia di arrendersi anche all’alleato italiano, cosa che avviene il 25 giugno 1940.
La sciagurata aggressione alla Francia costa 651 morti (631 italiani e 20 francesi), 756 dispersi (616 italiani e 150 francesi, oltre a 2.715 feriti (2.631 italiani e 84 francesi), ma Mussolini raggiunge il suo scopo.
Dopo sole due settimane di guerra cessano quindi le ostilità ed inizia l’occupazione italiana della Francia sud-orientale. Eppure già in queste due settimane Dino rischia per la prima volta la vita sotto il tiro dei mortai francesi. Salva la pelle e alla fine del breve conflitto si ritrova a far parte dell’esercito d’occupazione, nel paese francese di Lanslebourg, da dove come sempre scriverà ai suoi cari per raccontare le vicende vissute.
Lunedì 30 settembre 1940 il pellegrinaggio di Dino ricomincia. Prima a Caselle torinese (TO) poi, due giorni dopo e sempre a piedi, ad Agliè (TO).
La tappa successiva è Vercelli dove arriva il 27 ottobre e lo comunica subito alla famiglia con una cartolina che ritrae la caserma Conte di Torino, sede del locale distretto militare.

La caserma Conte di Torino che a fine 1940 era sede del distretto militare di Vercelli.

Sul suo foglio matricolare tuttavia risulterà “trasferito alla forza matricolare del 17° Regg.to Art. per il Rep. Com. del 59° Regg. Art.” solo il 15 gennaio 1941. Ma di certo in quella data Dino era già da tempo a Vercelli, come del resto testimonia pure la tessera trimestrale rilasciatagli dal Comandante del Reggimento il 1° gennaio 1941.
Quest’ultimo documento è di particolare interesse perché ci rivela che Dino, il cui grado è artigliere scelto, in questa fase lavora otto ore al distretto come scritturale nell’ufficio amministrazione, e gode della libera uscita dalle 19 alle 22.

             

Il fatto che lavori negli uffici amministrativi è ulteriormente dimostrato dal fatto che le sue lettere e cartoline sono ora scritte a macchina. In questo periodo riesce a passare qualche fine settimana in licenza ad Alpignano. Ma proprio in questo periodo, più esattamente il 28 ottobre 1940, l’Italia attacca la Grecia a partire dal territorio albanese già occupato nell’aprile 1939. La guerra alla Grecia, che nella presunzione del governo fascista e delle alte gerarchie militari avrebbe dovuto risolversi in poche settimane, in realtà si trasforma ancora una volta in una disfatta. L’esercito italiano viene ricacciato in territorio albanese. Vengono così mobilitate ulteriori divisioni che poco alla volta si raggruppano al di là dell’Adriatico per ritentare l’invasione. La divisione Cagliari di cui fa parte Dino non verrà risparmiata, ed il 25 gennaio si ritrova a Bari in attesa di imbarcarsi per l’Albania. Dal fronte francese a quello greco-albanese in pochi mesi.
Da Bari partirà il 28 gennaio 1941 con il piroscafo Italia, alla volta di Durazzo dove sbarcherò il giorno successivo. Il piroscafo Italia fu utilizzato come trasporto truppe, in prevalenza sulle rotte per l’Albania e per la Libia, effettuando numerosi viaggi senza subire alcun danno.

  • LA GUERRA – IL FRONTE GRECO-ALBANESE

L’arrivo in Albania avviene quando è ancora pieno inverno e il clima ostacola non poco le azioni di guerra dell’esercito italiano. Dino scrive subito ai familiari per rassicurarli (sto benissimo, è un luogo bellissimo) quasi per far credere loro di essere andato in vacanza, ma sa bene che sta avvicinandosi al fronte con tutti i pericoli che ciò comporta.
Ancora a metà febbraio le piogge torrenziali sul terreno argilloso provocano uno strato di fango tale da arrivare alla pancia dei cavalli. Dino, dopo essere stato in trincea al fronte per alcuni giorni, si autodescrive come “uomo di argilla” anche perché i piedi sprofondano nel fango che arriva fin sopra le ginocchia.
A metà marzo Dino si trova nella città di Fier Sheganit, non lontano da Valona e dal confine greco-albanese.
L’esercito italiano è ripartito all’attacco il 9 marzo 1941 in quella che viene chiamata “offensiva di primavera“. Lo stesso Mussolini, giunto in Albania il 2 marzo, assiste all’inizio dell’attacco. Comprese le truppe d’appoggio sono 50000 i soldati italiani in campo. L’attacco, dopo un inizio apparentemente confortante, segna il passo a poche ore dall’avvio. Dopo pesanti combattimenti e perdite sanguinose, i reparti non riescono a conquistare che poche posizioni in alcuni casi subito perdute a seguito di contrattacchi greci. L’offensiva italiana rimane infruttuosa fino al 16 marzo, quando viene interrotta. In due sole settimane le perdite ammontano a circa 12000 uomini tra morti e feriti, a fronte di miseri guadagni territoriali.
Non solo, l’attacco italiano alla Grecia viene accolto con disappunto dai tedeschi. Innanzitutto Mussolini ha ignorato gli appelli di Hitler e poi la conduzione del piano era stata giudicata molto negativamente dagli esperti militari tedeschi, i quali si aspettavano una fulminea invasione sul modello di quella da loro attuata in Norvegia. Così l’esercito tedesco è quasi costretto ad intervenire e il 6 aprile 1941 attacca contemporaneamente da est la Jugoslavia e la Grecia. Dopo neanche una settimana, il 12 aprile, l’esercito greco richiama le sua divisioni dal fronte albanese. Le forze italiane possono così spingersi in avanti nel vuoto lasciato dai greci in ritirata. Il 14 aprile le truppe italiane rioccupano Coriza, seguita il 18 aprile da Argirocastro; quello stesso giorno i tedeschi sono in prossimità di Larissa. Il comando greco si arrende ai tedeschi il 20 aprile, ma l’armistizio è tutto in chiave anti-italiana: non è prevista la resa dei reparti greci all’Italia, le unità tedesche si dovrebbero interporre tra italiani e greci, i soldati ellenici non possono essere fatti prigionieri dagli italiani. A questo punto Mussolini protesta in prima persona e ottiene la resa incondizionata dei greci. La confusa situazione venutasi a creare tra greci in ritirata, truppe italiane che via via si imbattono nei tedeschi avanzanti viene risolta il 23 aprile a Giannina con la firma dell’armistizio conclusivo delle ostilità sul fronte greco-albanese.
Dopo la Francia quindi anche la Grecia. L’Italia e il suo alleato tedesco sembrano non avere ostacoli nell’occupare l’Europa. Ormai mancano solo più la Gran Bretagna e pochi altri Stati. Tra questi l’Unione Sovietica, che giocherà un ruolo fondamentale nella sconfitta dei nazisti pagando però un costo altissimo in termini di vite umane.
Nel frattempo gli Stati Uniti stanno a guardare, forse non percependo il pericolo di quanto succede nella lontana Europa. Il risveglio sarà brusco quando i giapponesi attaccheranno Pearl Harbour nel dicembre del 1941. Eppure già nel 1940 Charlie Chaplin con il suo film “Il grande dittatore” lanciò un grido di allarme attraverso l’uso della parodia satirica del nazifascismo. E’ rimasto celebre il discorso finale, una proclamazione d’amore, libertà, uguaglianza e solidarietà tra gli uomini nella speranza di tempi migliori.
Incomincia il lungo periodo dell’occupazione italiana delle isole greche e del Peloponneso, Dino viene destinato a sud. Attraversa città che descrive come bellissime: Giannina, Agrinio, Aitolico, Missolungi, Patrasso.

L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA GRECIA

Dopo lunghi giorni di viaggio, a metà giugno del 1941 Dino si ritrova al centro del Peloponneso, Durante il tragitto non dimentica di descrivere i luoghi che attraversa, come l’istmo di Corinto, e i resti dei combattimenti con le truppe inglesi “Quanti aeroplani inglesi ho anche visto qui! Tutti distrutti dalla potenza della nostra aviazione”.
Il luogo dove Dino, senza saperlo, rimarrà fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 è la città di Tripolis (Τρίπολη il greco). Il comando italiano si insedia nel moderno albergo situato nella piazza centrale della città. Dopo mesi in cui ha dormito in tenda o in ricoveri di fortuna Dino si ritrova in un luogo che descrive come “molto bello e pieno di comodità” rappresentate da un letto a molle con due materassi e un cuscino di piume.
Inizia un periodo di tranquillità determinato anche dalla sensazione che la guerra stia per finire presto e che si possa far ritorno a casa. In realtà il tempo trascorrerà lento, tra il lavoro d’ufficio presso il comando ed i viaggi ad Atene per ritirare i soldi degli stipendi, tra una passeggiata al parco e un film inframmezzato dai cinegiornali Luce. Ma soprattutto la lontananza da casa, come emerge dalle tante lettere che servono per mantenere un contatto continuo con i genitori e le sorelle. Sono lettere piene di affetto e di promesse legate al ritorno. E in effetti il ritorno a casa in licenza non tarda. Dino viene inviato in licenza per 15 giorni più viaggio. Parte da Tripolis il 4 agosto 1941 e vi fa ritorno il 15 settembre. Sono in totale 42 giorni di cui 27 di viaggio! Dino non lo sa ancora ma questa rimarrà la sola e unica licenza di cui usufruirà fino alla fine della guerra.

Nelle sue lettere, a mano a mano che passeranno i giorni, si percepisce che la speranza di rivedere i suoi cari si farà sempre più fievole. Così come la baldanza alimentata dai successi militari e la cieca fiducia nelle parole di Mussolini, scemano poco alla volta per lasciare spazio all’incertezza e alla rassegnazione. Dino non vedrà i suoi cari dal 31 agosto 1941 al 21 luglio 1945, più di mille giorni vissuti tra la Grecia occupata e la Germania nazista.
Ironia della sorte (o concessione tardiva in piena smobilitazione) il Comandante Roversi l’8 settembre 1943 firma la tanto sospirata licenza, piena di inutili firme, timbri e attestazioni. Tra le varie cose si legge che Dino “al termine della licenza dovrà presentarsi al Centro di mobilitazione a Vercelli dove dovrà intendersi trasferito”…

Il certificato sanitario firmato l'8 settembre 1943
Il biglietto del treno da Mestre ad Alpignano mai utilizzato

L’ARMISTIZIO E LA PRIGIONIA

La presumibile gioia di Dino, con in mano la licenza ed il biglietto del treno, dura poco. L’8 settembre anziché essere la fine della tragedia sarà l’inizio dell’incubo. I militari italiani abbandonati a loro stessi vengono fatti prigionieri quasi ovunque dai tedeschi senza opporre resistenza. E così accade anche a Dino il 10 settembre a Tripolis.
I nazisti nel catturare Dino e i suoi commilitoni, salvo quelli fuggiti per congiungersi con i partigiani greci e quelli messi in salvo dalle stesse famiglie greche, utilizzano un subdolo stratagemma. Per convincerli a deporre le armi offrono due alternative. La prima è di continuare la guerra al fianco dell’esercito tedesco e a quello della appena costituita Repubblica Sociale nel Nord Italia. La seconda è di essere rispediti in Italia, salvo i residenti nel sud ormai nelle mani delle forze alleate.
Dino, come la stragrande maggioranza dei militari, rifiuta di continuare la guerra al fianco di un esercito nemico, anche per non infrangere il giuramento di fedeltà prestato al re d’Italia. E poi l’alternativa, ance se dei tedeschi non ci si fida, sembrerebbe allettante.
Invece i peggiori presentimenti si avverano. I soldati che non aderiscono all’esercito della R.S.I. vengono fatti prigionieri e trattati come bestie da macello. Prima vengono rinchiusi in un campo sportivo sotto il tiro delle mitragliatrici e poi vengono caricati a decine su carri merci ed avviati verso nord con destinazione ignota.
Dopo quattro giorni di viaggio in carro bestiame senza praticamente poter mangiare, bere e riposarsi, oltre a dover espletare i bisogni corporali all’interno del vagone stesso, Dino si ritrova nel grande campo di concentramento e smistamento di Altengrabow, il famigerato Stalag XI-A, circa 90 chilometri a sud-ovest di Berlino e più o meno a metà strada tra la stessa Berlino e la città di Magdeburgo.
Ad Altengrabow Dino rimane solo cinque giorni, durante i quali ha però modo di constatare a sua condizione di prigioniero senza diritti. Infatti i tedeschi, ancora fortemente risentiti per il “tradimento” italiano, non hanno nessuna intenzione di rispettare nei confronti dei nostri militari le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Iniziano così i trattamenti disumani, le percosse e le offese.
Il 20 settembre 1943 Dino viene inviato, come lavoratore coatto, presso uno zuccherificio di Alleringersleben, circa 50 chilometri ad ovest di Altengrabow. Lo stesso giorno Hitler stabilisce d’arbitrio che la condizione giuridica degli italiani venga trasformata da “prigionieri di guerra” a “internati militari”, con la scusa che non essendo la R.S.I. un Paese ostile alla Germania i suoi cittadini non possono essere considerati prigionieri.
La derubricazione da “prigionieri” a “internati” comporta l’assoggettamento dei deportati a un regime giuridico non regolato dalla convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra. Di fatto gli Internai Militari Italiani (I.M.I.) vengono a trovarsi in un limbo giuridico soggetto al totale arbitrio tedesco, non potendo nemmeno contare sull’assistenza della Croce Rossa Internazionale a cui viene vietato l’accesso ai campi in cui sono detenuti gli I.M.I.
Inizia così nel peggiore dei modi la detenzione di Dino. Nello zuccherificio di Alleringersleben viene impiegato nel lavoro di riempimento dei sacchi da 100 chili con una grossa sessola in legno e quindi al loro trasporto verso un deposito. Il lavoro è duro e faticoso, per 10-12 ore al giorno. Il cibo scarso e poco nutriente. I kapò e le SS che controllano i prigionieri durante il lavoro li sottopongono a ogni tipo di violenza, verbale ma soprattutto fisica e psicologica. Ogni mattino, quando è ancora buio e fa freddo, molto freddo, gli I.M.I. vengono svegliati e sottoposti a lunghi ed estenuanti appelli. Di notte pidocchi, pulci e cimici impediscono di riposare. Un inferno.
Dino si fa presto notare per la sua costituzione robusta e perché impara in fretta il tedesco. Finisce così per farsi notare da un kapò che gli offre di diventarlo anche lui. Dino si rifiuta, mai e poi mai accetterebbe di infierire sadicamente sui suoi compagni e di arrivare, come fanno alcuni kapò, a decidere della loro stessa sorte, anche se ciò significherebbe un notevole miglioramento della sua situazione. Niente più lavoro e vitto migliore.
Ovviamente il rifiuto di Dino non passa impunito ed inizialmente viene trasferito al reparto presse, dove lo zucchero è allo stato liquido perché viene riscaldato ad alte temperature. Anche se è pieno inverno è costretto a lavorare a torso nudo. Sui filtri attraverso i quali passa lo zucchero liquido si deposita di continuo la calce usata per depurarlo e sbiancarlo. Allora deve usare una paletta di legno per staccare la calce e farla scendere a terra. La vita è dura, ma stando alle presse ogni tanto riesce a mangiare di nascosto un po’ di zucchero.
Tuttavia la cosa non finisce così. Le SS capiscono che non c’è modo di convincerlo a diventare un kapò, ma nella sua baracca ce n’è uno particolarmente violento, un ex criminale, che senza motivo apparente (in realtà per accontentare le SS e non rischiare il posto) picchia i prigionieri. Il kapò vuole costringere Dino a sorvegliare di notte i suoi compagni di prigionia e a fare la spia. Per convincerlo gli ripete di continuo “così tu dopo non lavori più”. Ma di fronte ai ripetuti dinieghi passa alla violenza fisica. Non c’è giorno in cui non gli assesti un pugno, un calcio, uno schiaffo. Ma non è solo il dolore fisico che fa soffrire Dino, è anche quel senso di rabbia impotente e di costante umiliazione di fronte ai compagni inermi e alle SS che ridono.

Finché arriva la vigilia di Natale del 1943. Lasciamo che sia Dino stesso con il suo racconto a spiegarci cosa succede:

“sono sul rimorchio di un trattore che sta attraversando la notte gelida verso una destinazione sconosciuta anche se immaginabile. Ma è bene che vi racconti dall’inizio la disavventura che mi è
capitata oggi. Proprio alla vigilia del Santo Natale, che una volta era un giorno di festa e oggi è un giorno tristissimo. Come scrissi l’ultima volta, ho rifiutato più volte di diventare kapò. Quel ruolo mi fa ribrezzo. Meglio morire che infierire sui propri compagni o su altri internati che già così rischiano la vita ogni giorno per la fatica, gli stenti, le malattie e le percosse.
Ebbene, per convincermi ad accettare quell’incarico prima mi avevano offerto di non lavorare, di avere più cibo e qualche sigaretta. Poi mi hanno detto che avrei potuto tenere per me parte del cibo destinato agli altri prigionieri. Ma siccome ho continuato a dire di no, allora sono incominciate le vessazioni da parte del kapò che, come vi avevo già detto, mi ha preso di mira. Ogni volta che mi passava vicino mi insultava dandomi del maiale, del badogliano, del traditore. E ogni volta un calcio, uno sputo, un pugno, un colpo con il calcio del fucile. Naturalmente non potevo replicare ma solo cercare di fargli capire che i suoi insulti e le sue angherie mi facevano un baffo, anche se le botte facevano male.
Ho resistito, Dio solo sa quanto ho resistito, ma oggi non ce l’ho più fatta e mi sono ribellato. L’indigenza della prigionia e la violenza gratuita del mio aguzzino mi hanno fatto perdere il controllo. Ed ho reagito. Proprio in quel momento stavo pensando che domani è Natale e
provavo un senso di rabbia mista ad impotenza nel sapere che ero lontano dai miei cari, quando il farabutto mi ha assestato un pugno in faccia, colpendomi in pieno un occhio. Istintivamente l’ho colpito con la paletta di legno che avevo in mano, con tutta la mia forza, senza pensare alle possibili
conseguenze. Ho avuto solo il tempo di vederlo crollare a terra con il volto insanguinato che avevo già due fucili puntati alle tempie. In quel preciso istante ho pensato che fosse meglio così, sarei
morto senza tante storie e tutto sarebbe finito in un attimo. E invece, dopo avermi colpito più volte facendomi cadere a terra, mi hanno ordinato di ritornare nella mia baracca. Dopo qualche ora mi sono venuti a prendere e mi hanno caricato su questo rimorchio. Nel freddo della notte penso che mi giustizieranno e getteranno il mio corpo in una delle tante fosse comuni sparse nei boschi, di cui ho sentito parlare al campo. Non potrò più rivedere i miei cari, ma forse è meglio così, tanto sarei morto lo stesso di qualche malattia, congelato, per la fame
o per la fatica.

 

L’ARMISTIZIO E LA PRIGIONIA

La presumib